Nudging è l’espressione che, parlando di social media e ambienti digitali, si usa sempre più spesso per far riferimento a come le piattaforme provino a incentivare determinati comportamenti tra gli iscritti.
Il termine “nudge” è tradotto, infatti, in italiano come “pungolo” o “lieve spinta” e la nudging theory (o teoria dei nudge) è una teoria di derivazione comportamentista appunto, secondo cui piccoli rinforzi positivi, aiuti indiretti o anche semplicemente la mancanza di rinforzi negativi possono incidere sui processi decisionali dell’individuo o del gruppo.
Dall’esperienza in store e più in generale dalla shopping experience al social media marketing sono innumerevoli i campi in cui si può progettare strategicamente l’architettura decisionale e favorire alcuni percorsi emotivo-cognitivi rispetto ad altri, ossia fare nudging appunto, per assicurarsi che consumatori e utenti prendano determinate decisioni.
I tentativi da parte di big digitali come Facebook o Twitter di indirizzare le scelte dei propri utenti sono a volte così sottili, impercettibili o parte del design stesso dell’esperienza utente sulla piattaforma che non è sempre facile rispondere a questa domanda.
Più semplice è capire qual è la finalità della maggior parte di essi: incentivare gli utenti a passare più tempo sulla piattaforma, meglio se attivamente e cioè condividendo contenuti, interagendo con altri utenti o con profili business, guardando video o Storie, dal momento che più tempo trascorso online significa più possibilità di monetizzazione.